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Scritto da luciano luciani
Cronaca
22 Maggio 2023

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Giovedì 17 maggio 1973. Milano, cinquant’anni fa. Siamo nel cortile della Questura di Milano in via Fatebenefratelli e sono le 11:00. Alla presenza di una piccola folla e del ministro degli Interni, Mariano Rumor, viene scoperto un busto alla memoria del commissario Luigi Calabresi, ucciso un anno prima, secondo la verità giudiziaria, da un commando di Lotta Continua.

Terminata la cerimonia il ministro si allontana velocemente e subito dopo tra i presenti esplode una bomba a mano di tipo “ananas”, un ordigno a larga frammentazione di fabbricazione israeliana, che fa quattro morti e 52 feriti. L’attentatore, subito fermato, ostenta, tatuato sul braccio e ben visibile, il simbolo dell’anarchia. Si chiama Gianfranco Bertoli e dichiara di aver voluto colpire il titolare degli Interni in quanto presidente del Consiglio al tempo di piazza Fontana. Eppure, Bertoli, che imperterrito insiste nel professare di essere un anarchico individualista e nell’urlare a gran voce “fatemi fare la fine di Pinelli”, non la racconta giusta. Sulla sua figura e la sua storia a mano a mano emergeranno particolari inquietanti: per esempio, un passato da informatore del SID (Servizio informazioni difesa) e del SIFAR (Servizio informazioni forze armate); poi, l’appartenenza a Gladio, un’organizzazione paramilitare anticomunista istituita tra la CIA statunitense e l’intelligence nostrana; quindi, un tentativo, rintuzzato, di infiltrarsi nel PCI di Venezia; da ultimo, un viaggio, precedente la strage e mai spiegato, da Israele a Milano, passando per Marsiglia. E perché il SISMI (Servizio informazioni e sicurezza militare) penserà bene di distruggere l’intero il carteggio relativo al Bertoli? Tutto sembra concorrere all’idea di un camuffamento ideologico del sedicente anarchico, l’unico attentatore della stagione delle stragi arrestato in flagranza di reato.

E, a ogni buon conto, non sono solo gli anarchici ad avercela col politico democristiano. Fin dal 1971 hanno giurato di fargliela pagare cara soprattutto i seguaci di Ordine Nuovo, il gruppo più pericoloso della galassia neofascista degli anni Settanta, per punirlo del fatto che nel dicembre ’69, dopo il terribile attentato di Milano, da presidente del Consiglio, non aveva voluto dichiarare lo stato d’assedio, come nei piani dell’estrema destra di “destabilizzare per stabilizzare”; poi, sempre l’uomo politico democristiano, prima da ministro, poi da presidente del Consiglio, si era reso colpevole agli occhi degli ordinovisti per non aver fatto abbastanza, all’interno del suo partito e del governo, per scongiurare lo scioglimento dell’organizzazione nera poi avvenuto nel novembre 1973. E proprio a tale raggruppamento, secondo le successive deposizioni di esponenti di spicco proprio di Ordine Nuovo, sarebbe appartenuto il Bertoli.

Insomma, se proviamo oggi a rileggere la tragica vicenda dell’attentato alla questura milanese la troviamo tutta interna alla cosiddetta “strategia della tensione”: ovvero, un programma di contrasto al comunismo senza esclusione di mezzi che prevedeva disordini sociali forieri di un probabile/possibile intervento delle forze armate sugli scenari della politica. Come ha scritto di recente lo storico Miguel Gotor in quegli anni “una parte consistente degli apparati di sicurezza dello Stato, quelli militari (il Sid) e civili (l’Ufficio affari riservati) svolsero una sistematica azione di intossicazione, disinformazione, depistaggio, omessa vigilanza e, in alcuni casi, di fattivo sostegno logistico organizzativo per coprire la manovalanza neofascista autrice delle stragi.” Anche in questo caso siamo di fronte a un altro evidente eccidio nero.

L’appurerà l’inchiesta condotta negli anni Novanta dal giudice istruttore Guido Salvini che individua nell’ambiente della cellula veneta di Ordine nuovo le responsabilità sia della strage di Piazza Fontana a Milano il 12 dicembre 1969, sia di quella di via Fatebenefratelli del 17 maggio ’73, sia del massacro compiuto a Piazza della Loggia a Brescia il 28 maggio 1974: una lunga scia di sangue che segnerà in maniera indelebile la storia d’Italia della seconda metà del Novecento. Per l’attentato alla questura di Milano sarà condannato il solo Bertoli, ma non sarà possibile per la giustizia risalire ai mandanti: pure, la Cassazione giudicherà “indubitabile” che l’attentato sia stato pianificato proprio da Ordine Nuovo che aveva provveduto al suo addestramento a Verona. Sono gli anni Settanta, bellezza! E ai progressi della società civile - decentramento regionale; Statuto dei diritti dei lavoratori; Organi collegiali della scuola; Servizio sanitario nazionale; conferma della legge sul divorzio… - faceva da contraltare un imbarbarimento della lotta politica, tanto più aspra e priva di regole quanto più la sinistra e le forze progressiste si avvicinavano al cuore del potere politico.

Gianfranco Bertoli muore nel 2000 a Livorno, in regime carcerario di semilibertà, continuando testardamente a professarsi anarchico.

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